Enrico Berti.. Molto dipende da come si definisce l’anima. Se la si intende come lo “spettro nella macchina” di impronta cartesiana, un fantasma che si aggira all’interno del corpo umano, allora la risposta è semplice: non resta che rispondere con il titolo di un editoriale apparso su un fascicolo di Nature-Neuroscience nel 2002: “Sorry, your soul just died” (“spiacenti, la vostra anima è appena deceduta”). E non è morta da oggi, ma almeno dal tempo di Kant.
Questo, però, non è l’unico modo di intendere l’anima. Se si ripensa alla radice del concetto, alla psyche, si giunge all’idea, di ispirazione aristotelica, ripresa ad esempio da Vito Mancuso nel libro “L’anima e il suo destino” (2007): l’anima è una forma del corpo vivente, è l’energia che rende possibile la vita, nelle sue manifestazioni più elementari, come quelle vegetative, fino alla capacità del corpo di svolgere funzioni superiori come pensare, volere, e a dicendo. Ritorna qui il  concetto aristotelico di forma come struttura organizzata capace di svolgere funzioni integrate fra loro. Al tempo di Aristotele si credeva che l’organo capace di svolgere queste funzioni fosse il cuore, oggi invece la scienza ci ha insegnato che è il cervello. La presenza nel cervello di questa capacità è l’anima. E’, in ultima analisi, ciò che distingue un cervello vivo da uno morto, un cervello attivo da uno con elettroencefalogramma piatto. Ebbene, se l’anima è questo, allora non solo non c’è motivo per dire che è morta, ma proprio le neuroscienze, con gli studi sul cervello e la coscienza, mostrano che questo concetto di anima ha più titoli per proporsi al dibattito rispetto a quella di tipo cartesiano-platonico.

Giulio Giorello.. Cosa resta dell’anima? E’ un tema che fa tremare le vene ai polsi, non sappiamo tutto del corpo, figurarsi dell’anima. Mi si attribuisce questa battuta: “Alcuni hanno detto che solo il genere maschile ha un’anima. Altri – e non fino a molto tempo fa, almeno fino alla Guerra Civile Americana – che solo gli uomini liberi e non gli schiavi hanno un’anima. Altri sostengono che nessuno ha più un’anima. E almeno in questo modo forme odiose di apartheid e discriminazione vengono tagliate fuori”.  Charles Darwin nei suoi appunti sugli scritti di Platone dedicati all’anima, scrive che tutto quello che dice Platone è bellissimo purché si sostituisca la parola “soul” (anima) con “ape” (scimmia). In altri appunti dei suoi taccuini, Darwin scrive che per comune opinione l’anima è sopraggiunta a un certo punto in noi, non si sa bene quando e come, mentre gli animali non ce l’hanno. Ma se andiamo a vedere le nostre somiglianze e differenze col mondo animale, scopriamo che gli animali l’anima ce l’hanno e sono nostri compagni d’avventura in questo mondo.
Questo è un  modo vivo per recuperare alla luce delle teorie dell’evoluzione il concetto di anima. Le teorie di oggi mettono in luce l’emergenza della coscienza, mettono in luce il concetto di anima di Darwin. L’anima, lo spirito, si evolvono anche nelle diverse lingue. Nella traduzione francese di Cartesio, la parola “mente” non esiste, ma è l’”âme”, l’anima. Quelle tradizionali grandi domande oggi trovano un modo per avvicinarsi a piccole risposte proprio grazie all’impresa scientifica, in cui l’apporto tecnologico è fondamentale. Ciò che origina dalla coscienza comincia a essere chiarito da teorie controllabili, cioè secondo l’onesto lavoro della scienza empirica. So bene che la spiegazione scientifica tende a ridurre qualunque morfologia osservata. Siamo prigionieri della descrizione scientifica, ma la nostra libertà è la grammatica, il linguaggio. Inoltre, se l’anima è la presenza nel cervello e nel corpo di una serie di capacità, allora siamo di fronte a una dilatazione dell’anima. Per dirla con Stephen Dedalus di James Joyce (Ulisse), un’anima che si estende “fino alla stella più lontana, che puoi raggiungere coi tuoi occhi o con qualche telescopio”. Lavorare, pensare, gettare la propria coscienza nel mondo in cui viviamo. Ma se è fino all’ultima stella, allora è finita? No, perché domani vedremo ancora più stelle, andremo più avanti, grazie alla scienza e alla tecnica. In questo modo, pur ingabbiati nella nostra dimensione individuale, riusciamo a creare questa cosa meravigliosa che è la conoscenza partecipata.

Enrico Berti.. alcuni filosofi pensano che le neuroscienze abbiano dimostrato che non c’è spazio per la libertà, cioè che le decisioni sono il risultato di processi fisiologici nel cervello e non della nostra volontà. Ci rendiamo conto delle conseguenze preoccupanti di questo approccio, che eliminerebbe con la libertà anche la responsabilità e l’etica stessa. Gli  esperimenti di Benjamin Libet, da cui risulta che prendiamo coscienza dai processi che ci portano a decidere 500 millesimi di secondo più tardi dell’attivazione neurale che predispone alla decisione stessa, hanno dimostrato che le nostre decisioni sono predeterminate? Non è un problema nuovo, se lo ponevano già gli antichi. Per Aristotele, la decisione è il risultato di concatenazioni necessarie di cause. Questo è stato interpretato in chiave determinista. Su questa base è stato introdotto e discusso il concetto di destino, già oggetto di dibattito nel Medio Evo e nel Rinascimento. Libet riconosce che la capacità cosciente ha perlomeno la possibilità di proseguire o inibire questi comportamenti. C’è ancora spazio per la libertà. Secondo i vecchi manuali di filosofia, la libertà è un dato di fatto di cui si abbia esperienza. E’ la percezione mediata del nostro potere di compiere o non compiere certe azioni. Il senso morale è un indizio di questo, come sa ciascuno di noi quando ha vissuto momenti di pentimento. E non è un’obiezione richiamarsi alle teorie dell’evoluzione: l’uomo è frutto dell’evoluzione, tutto ciò che fa è risultato da questo processo. Un esempio: tra le attività dell’uomo c’è la geometria euclidea, anche la geometria è il risultato dell’evoluzione, ma questo non incide minimamente sula validità del teorema di Goethe o di Pitagora. L’affermazione “torturare un bambino è crudele” resta con tutto il suo valore indipendentemente dal processo con cui è nata.

Giulio Giorello. Non vedo nulla di scandaloso nelle conclusioni di Benjamin Libet, sarebbe curioso che la coscienza non fosse coscienza di qualcosa di fisico. Il libero arbitrio si può dunque attribuire al nostro cervello? E il cervello può essere determinato univocamente dagli stimoli? Credo che sia difficile dire che negli uomini o negli animali il cervello risponde in modo univoco agli stimoli. Penso a un celebre esperimento sui macachi, che a un trattamento negativo rispondevano con una reazione negativa.  Ma tutto dipende dal contesto: se il macaco fosse solo, non ci fossero altri animali né lo sperimentatore, con chi se la potrebbe prendere? I rapporti sociali influiscono sulla reazione. Forse è la differenza fra libero arbitrio e la nozione più generale di libertà. Anche il più rigido determinismo non nega che sia lecito chiedere una imputazione di responsabilità sociale. Come diceva Baruch Spinoza, è la natura di Nerone che lo spinge a uccidere la madre e dare fuoco a Roma, ma i Romani hanno diritto di chiedere la sua testa. A livello politico la responsabilità resta in maniera cristallina. Se un individuo dice: “ho commesso questo, è vero, ma è stata la mia natura” a che cosa rinuncia? Alla sua responsabilità, alla sua cittadinanza nella società. La libertà di azione e espressione nel mondo esterno non è libero arbitrio e può benissimo coesistere con il più rigido determinismo. La libertà non è metafisica, ma assenza di vincoli al mio modo di agire ed esprimermi, è la libertà della scienza, della ricerca, della politica.

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