Secondo Roberto Assagioli l’empatia è “l’immedesimazione, più o meno temporanea e di vario grado, con l’altro”. È alla base del rapporto Io-Tu, cioè del rapporto più genuino e vero fra due esseri umani. E’ resa possibile dall’unità essenziale della natura umana al di là di tutte le differenze, e significa che “in ognuno di noi sono presenti potenzialmente tutti gli elementi e le qualità dell’essere umano” . L’empatia può essere coltivata consciamente e in tutti i rapporti interpersonali, e anche deliberatamente evocata nella psicoterapia. Una grande parte della psicologia e in generale delle scienze umane del secolo scorso è fondata implicitamente sull’assunto del fondamentale egoismo umano:”Homo homini lupus”, secondo l’espressione di Hobbes. È un postulato di antica data, che si è rafforzato da una lettura unilaterale della lotta evolutiva. In questa visione l’essere umano è il prodotto di un’evoluzione che è una guerra cruenta in cui sopravvive solo chi riesce a prevalere sugli altri. Ogni manifestazione di altruismo, di empatia, di cura per l’altro, sono strumentali e posticci. Per Freud l’empatia è una manifetazione del super-io, che incomincia a manifestarsi verso il settimo anno d’età: l’empatia significa occuparsi anche delle esigenze altrui per un compromesso interessato di coesistenza sociale, e sorge con la formazione del super-io. Per Piaget l’empatia è anzitutto un fatto che riguarda la rappresentazione spaziale, cioè la capacità di vedere il mondo circostante dal punto di vista altrui: per esempio, io non posso vedere dietro le mie spalle, ma chi mi guarda può farlo. Per molto tempo pochi hanno creduto nell’esistenza di motivazioni genuinamente prosociali dell’essere umano e nella propensione spontanea all’empatia. Una delle rare eccezioni è costituita da Carl Rogers, che ha eletto l’empatia a tema centrale del suo lavoro. Dagli anni ottanta questo scenario è cambiato radicalmente: gli studi sull’altruismo spontaneo dei bambini, le ricerche sul comportamento animale e soprattutto quelle sui primati, quelle sui cittadini comuni che hanno aiutato a loro rischio gli ebrei ricercati durante i tempi dell’occupazione tedesca, gli studi sui donatori di sangue e di midollo spinale, sul ruolo centrale del contatto sociale e dell’appartenenza, sull’importanza delle cure materne e dell’allattamento (già sviluppate dal lavoro pionieristico di Bowlby), e vari altri ancora, mostrano che la tendenza empatica e prosociale esiste fianco a fianco con le tendenze più egoistiche, e che ha giocato un ruolo centrale nello sviluppo dei rapporti interpersonali e quindi nell’evoluzione umana. In questo scenario la scoperta dei neuroni specchio ad opera di Rizzolatti assume un rilievo di importanza centrale. Secondo Rizzolatti i neuroni specchio hanno la capacità di ricreare un’attività che noi percepiamo svolgersi nell’ambiente circostante. Se io vedo che qualcuno alza un braccio, i miei neuroni specchio riproducono quello stesso gesto nel mio cervello. Ciò avviene solo a condizione che io percepisca che quel gesto sia intenzionale: questo a sua volta è un punto cruciale, perché mostra che il cervello umano è equipaggiato per discriminare fra attività volontaria e involontaria – una capacità presente fin dal terzo anno di età . Dunque l’empatia è una capacità fondamentale del sistema nervoso, non un comportamento sociale appreso né una capacità soltanto mentale. Il significato di questa scoperta è rivoluzionario perché mette al centro della natura umana la capacità di entrare in risonanza con altri esseri umani. Questa capacità sarebbe alla base delle relazioni interpersonali, della comunicazione fra persone, dell’apprendimento del linguaggio e della vita sociale; e convalida ulteriormente la possibilità che esistano nell’essere umano tendenze prosociali originarie. Ho usato il condizionale perché su questo argomento esistono pareri discordanti. Il significato dell’esistenza di neuroni specchio deve essere valutato con prudenza, al di là di semplificazioni giornalistiche, molto diffuse in questi ultimi anni. È però interessante citare qui il parere autorevole di V. S. Ramachandran, secondo il quale l’empatia generata dai neuroni specchio è la causa principale del salto evolutivo compiuto dall’umanità negli ultimi cinquecentomila anni, e poi anche quello più recente negli ultimi 2500 anni, perché i neuroni specchio ci rendono possibile comunicare con gli altri e imparare da loro, e quindi trasmettere la conoscenza tramite l’esempio e l’imitazione. Secondo Ramachandra la comparsa dei neuroni specchio ha segnato il passaggio dall’evoluzione biologica, basata unicamente sulla trasmissione genetica, all’evoluzione culturale, che è immensamente più veloce, che è basata sull’apprendimento e la comunicazione. Ramachandra chiama i neuroni specchio “neuroni Gandhi”, “perché cancellano il confine fra l’io e gli altri – non solo in senso metaforico, ma letteralmente, perché i neuroni non sanno riconoscere la differenza”. Secondo Ramachandra la rilevanza dei neuroni specchio per la psicologia è paragonabile all’importanza della scoperta del DNA per la biologia . Purtroppo bisogna anche notare come alcune scoperte fatte dalle neuroscienze, incluse quelle sull’empatia, sono state ottenute infliggendo indicibili sofferenze ad animali evoluti come i primati, e ad altri mammiferi: trapanazione del cranio, amputazione di dita, scosse elettriche, una vita di prigionia, ecc. Il paradosso qui è che queste operazioni vengono compiute in alcuni casi proprio studiando l’empatia: ricerche per dimostrare l’esistenza dell’empatia, ma condotte senza empatia alcuna. Questo pone alcuni interrogativi fondamentali sui limiti etici della ricerca, e ci mostra anche che l’empatia non è un dato universale e necessario, ma una capacità che può mancare o essere sviluppata. Rimanendo sempre nell’ambito del rapporto interpersonale, una ricerca recente di grande interesse per chiunque lavori nei campi della psicoterapia e del counseling ha dimostrato che negli esseri umani, a differenza di tutti gli altri primati, è presente un forte bisogno di comunicare le proprie esperienze; questo svelamento di sé (self-disclosure) attiva il sistema mesolimbico della dopamina, cioè quell’area neuronale parimenti attivata dall’anticipazione o dalla recezione di una ricompensa (quale cibo, denaro, sesso, nicotina). In altre parole, parlare di sé (anzichè parlare di qualsiasi altro soggetto) induce una sensazione di benessere . Si sa anche che chi si svela a un’altra persona avrà in seguito più probabilità di avere verso quella persona un atteggiamento positivo.

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By Piero Ferrucci

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